Velobox deterrenza o inganno: colonnine inutili, frenate improvvise, fiducia a pezzi.
- Altvelox

- 3 giorni fa
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Per anni abbiamo accettato colonnine cementate e colorate di arancione, bluo o grigio come se fossero “normali” elementi della strada, quando in realtà erano solo dei contenitori vuoti, usati come messaggio intimidatorio e come infrastruttura di un sistema di accertamento sempre meno verificabile sul posto. Oggi il D.M. 11 aprile 2024 rimette paletti tecnici e giuridici, e perfino il MIT chiarisce l’ovvio: la scatola non è uno strumento di misura, non è omologabile, e non può vivere di vita propria come se fosse un autovelox. Nel frattempo, chi chiede trasparenza si sente rispondere che “non c’è obbligo di riferire”. E qui, paradossalmente, il problema non è solo la colonnina, è il metodo.


Tra i primi anni Duemila e, grosso modo, fino a ridosso del 2020, molte amministrazioni comunali hanno disseminato le strade di competenza di contenitori rigidi, spesso blu, grigi o arancioni, piantati su basamenti cementati come se fossero segnaletica. Formalmente erano “box”, nella pratica erano un messaggio semplice e brutale: qui si controlla la velocità. Dentro, almeno sulla carta, non c’era nulla di stabile. Il rilevatore veniva inserito solo alla presenza della Polizia Locale e l’operatività seguiva il modello classico: rilevazione, pattuglia posizionata poco più avanti in luogo idoneo, fermo del veicolo, contestazione immediata quando possibile, con trasparenza, contraddittorio sul posto, verifica immediata dell’accertamento. Era faticoso. Era anche più pulito.
Poi è arrivata la scorciatoia, come sempre travestita da “necessità”. Tenere una pattuglia ferma a fare controlli con personale dedicato è diventato, in certe narrazioni, un lusso. Molto meglio lasciare il dispositivo in funzione e tornare dopo, notificando in differita e riempiendo i verbali con la formula standard: non è stato possibile procedere alla contestazione immediata per ragioni di sicurezza o per condizioni della circolazione. Sulla carta è una valutazione discrezionale legittima se reale e motivata. Nella realtà, quando diventa una formula seriale, ripetuta uguale su centinaia o migliaia di verbali, la discrezionalità si trasforma in automatismo. E l’automatismo, quando incide su sanzioni e punti patente, è il modo più veloce per far perdere fiducia nelle istituzioni.

In mezzo restavano loro, i velobox. Contenitori vuoti o utilizzati a rotazione, cementati, visibili da lontano, trattati come infrastruttura fissa di un sistema che in molti casi scivolava da presidio di sicurezza a macchina amministrativa di accertamento massivo. Il nodo giuridico, che molti hanno finto di non vedere, è elementare: il contenitore non è un dispositivo di misura, non è uno strumento omologabile come tale, e non può trasformarsi per magia in “autovelox” solo perché lo si vernicia e lo si fissa a terra. È un accessorio, un complemento. E proprio perché sta fisicamente sulla strada, spesso in banchina o a ridosso della carreggiata, deve avere una legittimazione coerente con l’uso, deve rispettare criteri tecnici, e soprattutto non deve creare rischi ulteriori alla circolazione.
Oggi questa stagione viene finalmente rimessa nei binari da un atto che, per una volta, non parla per slogan: il D.M. 11 aprile 2024. Qui non interessa la propaganda, interessa l’effetto pratico. Il decreto stabilisce criteri e presupposti per collocazione e uso delle postazioni di controllo velocità, chiarisce che “postazione” significa sistema, non solo apparecchio, e soprattutto riporta al centro un concetto che molti Comuni avevano annacquato: sulle strade dove la contestazione differita richiede l’individuazione prefettizia dei tratti, non si installa dove “si vuole”, si opera dove è autorizzato, secondo art. 4 del D.L. 121/2002. Regola semplice. Regola scomoda.
Dentro questo quadro si spiegano le notizie che in queste settimane stanno emergendo, e che qualcuno racconta come “scelte di trasparenza”, quando in realtà sono scelte obbligate. A Graffignana, per esempio, il Comune ha comunicato la rimozione definitiva di velobox lungo tratti della S.P. 19 nel centro abitato, richiamando riunioni tecniche, sopralluoghi e una conclusione chiara: “mancata conformità” delle postazioni e quindi inutilizzabilità ai fini del rilevamento. È un atto amministrativo, non un gesto simbolico. Significa che quando si verifica davvero, e quando qualcuno si assume la responsabilità di scrivere un esito, la scatola smette di essere un “deterrente” e torna a essere ciò che è: un manufatto senza funzione legittima.
A San Colombano al Lambro il copione è ancora più italiano, nel senso stretto del termine: colonnina divelta, box vuoto, già non usato per via delle modifiche normative, e adesso non viene ripristinato in attesa di un parere prefettizio sul mantenimento. Tradotto: nessuno vuole prendersi la responsabilità di tenere in strada un oggetto che richiama un controllo non pienamente inquadrato. Prudenza tardiva, ma pur sempre un segnale. Nel Padovano, sulla Regionale 10 in zona Santa Caterina di Este, si parla di rimozione o sospensione legata anche a scadenze contrattuali, ma il dato che colpisce è un altro: numeri enormi di verbali e importi elevati. Qui il punto non è moralistico, il punto è amministrativo. Più il sistema produce sanzioni in massa, più deve essere inattaccabile sul piano presupposti, tratti autorizzati, segnalazione, modalità di accertamento, tracciabilità della postazione. Perché altrimenti non è sicurezza, è contenzioso programmato. E poi ci sono i comunicati come quello di San Giovanni in Marignano, che dice una cosa semplice: i box vengono rimossi perché il decreto e i tratti autorizzati dal Prefetto non consentono di lasciarli ovunque. Qui si vede il passaggio culturale: non si parte dalla scatola, si parte dal tratto autorizzato e dalle condizioni. Il resto si adegua.
Fin qui la parte “strada”. Ma la storia, per Altvelox, non finisce con una colonnina rimossa. Perché il vero problema è quello che succede quando chiedi conto agli uffici pubblici, con atti tracciati, e ti rispondono con frasi che suonano come una serranda abbassata.

A dicembre 2025 abbiamo presentato istanza al Prefetto di Belluno chiedendo una cosa banale, ma evidentemente rivoluzionaria: una ricognizione reale sulle postazioni e sui velobox, la verifica della tracciabilità e della coerenza con i tratti autorizzati, e conseguentemente la rimozione o messa in sicurezza dei manufatti che non hanno più ragione di stare lì. La risposta prefettizia contiene un’ammissione significativa, e infatti pesa: i velobox "non sono in alcun modo autorizzati dal Prefetto” e non rientrano tra i rilevatori fissi individuati dal decreto prefettizio, perché privi di telecamera e utilizzabili solo con la presenza degli agenti, come un treppiede. Bene. Se non sono autorizzati come postazioni fisse, la conseguenza logica è una sola: si fa istruttoria, si verifica dove sono, a che titolo sono stati collocati, se creano rischio, se sono compatibili con la disciplina attuale, e si decide. Tutto scritto. Tutto tracciato.
Invece arriva la frase che cambia il quadro, non nei fatti ma nel metodo: non ci sarebbe alcun obbligo di riferire l’esito di eventuali azioni amministrative o accertamenti. Questa impostazione, detta senza zucchero, è fuorviante. Perché confonde due piani diversi: da un lato l’esercizio di poteri d’ufficio, dall’altro i diritti di accesso e trasparenza su atti detenuti.
Qui entra ANAC, e non come opinione. Il parere ANAC 9 luglio 2025, fascicolo 2672/2025, ribadisce che l’accesso civico generalizzato non è una cortesia e non è una risposta “di stile”. È un procedimento a esito vincolato: se gli atti esistono e sono detenuti nell’esercizio delle funzioni, devono essere ostesi, salvo limiti tipizzati e motivati in concreto, con valutazione dell’ostensione parziale. Non si può alzare un muro con una formula. Non si può rispondere “non devo riferire” per sottrarsi al fatto che, se hai istruito, allora hai prodotto atti, e se non hai istruito, allora quel vuoto va scritto, perché il vuoto istituzionale non è una categoria giuridica neutra.
Per questo abbiamo presentato una seconda istanza, questa volta qualificata espressamente come accesso civico generalizzato ex art. 5, comma 2, d.lgs. 33/2013 e, in via gradata, accesso documentale ex L. 241/1990, indirizzata anche al Responsabile della Prevenzione della Corruzione e della Trasparenza del Ministero dell’Interno. Non per fare scena. Perché quando una Prefettura risponde in modo elusivo, l’unico modo serio di rimettere ordine è riportare la questione nel perimetro dove le amministrazioni non possono improvvisare: atti, protocolli, fascicoli, responsabili del procedimento, istruttorie, note, richieste agli enti, esiti, oppure la dichiarazione formale che non esiste nulla. Tutto il resto è rumore.

E qui torniamo alla strada, quella vera. Le scatole vuote non sono innocue. Creano “effetto panico”. Quante volte capita di vedere quello davanti inchiodare perché scorge la colonnina colorata e frena d’istinto pensando all’autovelox? È la dinamica del tamponamento, della manovra improvvisa, del rischio che nasce da un oggetto che comunica paura, non sicurezza. E poi c’è il rischio d’urto: manufatti cementati senza protezioni o attenuatori, piazzati a margine carreggiata. Un ostacolo fisso è un punto di impatto. Se è inutile o non legittimamente mantenibile, diventa anche un problema di responsabilità.
Controlli sì. Ma regolari, tracciabili, e collocati dove la legge consente. Il resto è una scatola vuota. E, come spesso accade, è il vuoto che fa più danni.








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